E’ stata l’estate delle accuse. A chi? Ai più giovani accusati non solo di essere svogliati, viziati, ma di preferire il reddito di cittadinanza ad un lavoro stagionale. Le accuse sono arrivate da più parti. Al centro la denuncia degli imprenditori del turismo che avrebbero faticato a trovare personale per l’estate.
All’accusa di essere sfaticati e di non avere voglia di far nulla, i ragazzi hanno risposto che probabilmente ci sono altri fattori da considerare, come la retribuzione “da fame” che viene loro proposta a fronte di orari medi di dieci ore giornaliere, oltre che l’assenza di tutele. Alcuni parlano di sfruttamento, altri addirittura di schiavizzazione.
Sono numerose le testimonianze dei lavoratori che denunciano il mancato rispetto di orari e tutele nell’esecuzione di queste tipologie di contratti. Bisogna, in ogni caso, fare i conti con la pandemia, che ha aggravato il problema della disoccupazione ed ha, al tempo stesso, reso sempre più complessa la posizione dei piccoli e medi imprenditori, che fanno fatica a mantenere aperte le proprie attività.
Il dibattito impone una riflessione: lavorare con la garanzia di essere correttamente retribuiti e tutelati è un diritto, e limitarsi a classificare l’assenza dei lavoratori stagionali come la conseguenza della condotta di giovani sfaticati o della presenza degli ammortizzatori sociali, è una banalizzazione che non rende giustizia alla serietà del tema.
Da questa disputa è emersa, inoltre, la necessità di introdurre politiche attive del lavoro, connesse alla formazione continua, che possano garantire la professionalità richiesta per lo svolgimento di mansioni ad elevato livello di complessità.
Il lavoro non è solo fonte di guadagno: è uno strumento di realizzazione dell’individuo, attraverso il quale ciascuno esplica la propria personalità.
I giovani non sono nemici del lavoro dignitoso.
Il lavoro dignitoso deve tornare ad essere un diritto, per tutti.